Un pentito: “L’imprenditrice reggiana Maria Chindamo ha ucciso e dato in pasto ai maiali”

REGGIO CALABRIA – Uccisa e data in pasto ai maiali o fatta a pezzi con un trattore per far sparire ogni traccia del suo corpo. Secondo il pentito Antonio Cossidente, questa sarebbe stata la tragica fine di Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello, nel reggiano. Ufficialmente è scomparsa da tre anni, ma investigatori e familiari ne sono stati certi da tempo. È una delle tante vittime del fucile bianco, “lo scomparso”, ucciso e sepolto in tombe senza nome, privando la sua famiglia di spoglie su cui piangere.

A condannarla a una fine senza storia – ha rivelato il pentito Cossidente – sarebbe stato Salvatore Ascone “U pinnularu”, narcotrafficante nell’orbita del clan Mancuso e vicino di Chindamo, arrestato alcuni anni fa per manomissione alla videosorveglianza. sistema nella proprietà della donna proprio la sera prima della sua scomparsa.

Per lui, investigatori e investigatori avevano ipotizzato un ruolo – ma non da protagonista – in quella scomparsa, che molto probabilmente consideravano legata a una vendetta della famiglia dell’ex compagno della donna, suicidatosi dopo essere stato lasciato. Ma ora stanno emergendo altri motivi che potrebbero aver armato la mano dell’assassino. Sul terreno della vittima – ha rivelato Cossidente durante un interrogatorio del 7 gennaio 2020 anticipato dal quotidiano “Il Vibonese” – Ascone aveva da tempo messo gli occhi. Ma l’imprenditore non aveva mai avuto intenzione di venderglieli, lei avrebbe sempre detto no alle sue richieste. E quel rifiuto lo avrebbe ripagato con la vita.

Tutti dettagli che il pentito ha appreso da Emanuele Mancuso, primo collaboratore di giustizia della potente famiglia mafiosa di Limbadi, che lo aveva conosciuto in uno dei momenti più delicati della sua carriera. Da mesi i familiari insistevano perché facesse un passo indietro, “lo minacciavano della bambina – spiega Cossidente – dicendogli che doveva ritrattare altrimenti non glielo avrebbero mostrato più”. I tentacoli del clan, che in quei mesi cercò di ripararsi dalle rivelazioni del suo primo “profondo mal di gola”, si erano allungati all’interno del carcere, dove alcuni detenuti si erano avvicinati anche a Mancuso per convincerlo a fare un passo indietro.

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Incontri – racconta Cossidente – che lo hanno lasciato estremamente turbato. “Ricordo che gli facevo il caffè, fumava come un turco perché non voleva più collaborare, perché diceva:” Non mi mostrano la ragazza, mi minacciano, mettono in mezzo la ragazza che non c’entra, per me è la cosa più bella della mia vita “. E toccò a lui, pentito da oltre dieci anni, convincerlo a resistere a quelle pressioni, armi tra le più comuni usate dai clan a minare i percorsi di collaborazione di chi decide di fare il grande passo nel corso di una di queste lunghe chiacchierate che Mancuso gli svelerebbe nuovi dettagli sulla morte dell’imprenditore.

“Mi ha detto che a causa della scomparsa della donna, avvenuta alcuni anni fa, è stato coinvolto questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna, in quanto confinante con i terreni di sua proprietà”. Per Ascone era un ostacolo e avrebbe escogitato un vero e proprio piano per rimuoverlo, facendo cadere i sospetti sugli altri. “Emanuele – si legge nei verbali degli interrogatori di Cossidente – mi ha detto che in virtù di ciò l’ha fatta sparire, ben sapendo che se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe certamente ricaduta sulla famiglia del marito della donna, dal momento che dopo la rottura su, si è suicidato. “L’obiettivo era uno:” prendere possesso di quelle terre “. I metodi per distruggere tutte le tracce, barbari. “Mi ha detto che la donna era stata fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali” riferisce il pentito.

Dichiarazioni che in parte coincidono con quelle di Mancuso, che con i magistrati ha parlato a lungo dell’avidità di Ascone. “Lui – ha detto – aveva interesse ad acquisire i terreni di proprietà dei vicini e, per timori su possibili misure preventive nei suoi confronti, era solito pagarli prima in contanti, per evitare la tracciabilità dei pagamenti, lasciarli formalmente a nome del proprietari originari, per acquisirli successivamente tramite usucapione “. Non si sa se in quelle dichiarazioni ci fossero riferimenti alla tragica fine di Maria Chindamo. I verbali del pentito sono ancora coperti da grandi omissioni. Ma quanto anticipato da Cossidente apre sicuramente nuove strade, forse utili per far luce sulla fine dell’imprenditore e permettere ai familiari di ritrovare la pace e il perché.

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